Mangia la carne che ti fa bene, con tutte le sue proteine ...


di Maurizio Pallante

La crescita del consumo di proteine animali è uno degli strumenti più efficaci con cui la specie umana sta perseguendo, verrebbe da dire scientificamente e metodicamente, la sua autodistruzione. Tutti i più gravi problemi ambientali, economici e politici che stanno rapidamente avvicinando questa prospettiva ne risentono in modo determinante: le emissioni di gas climalteranti e l’effetto serra, le guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili, la progressiva penuria di un bene indispensabile per la vita come l’acqua, molte tra le più diffuse forme di inquinamento chimico, la diminuzione di fertilità dei suoli, la perdita della biodiversità, le sempre maggiori sperequazioni tra il 20 per cento dell’umanità che si suicida per eccessivo consumo di cibi sempre meno sani e il venti per cento privo del necessario per vivere dignitosamente, o semplicemente per sopravvivere (tra i quali la Fao calcola che siano circa 100 milioni ogni anno le persone che muoiono di inedia), le migrazioni di massa dai paesi del sud e dell’est del mondo verso i paesi nordoccidentali. Tutti questi problemi potrebbero essere ridotti drasticamente dalla diffusione di un regime alimentare vegetariano, o quanto meno, da una significativa riduzione dei consumi di proteine animali. Possono sembrare affermazioni eccessive dettate da fanatismo ideologico, ma basta mettere insieme alcuni dati di pubblico dominio per comporre un quadro unitario che i singoli tasselli isolati non lasciano vedere in tutta la sua ricchezza.
La prima cosa da prendere in considerazione è la crescita dei consumi di proteine animali, in valori assoluti pro capite. Negli ultimi 50 anni in Italia il consumo di carne procapite si è triplicato. È stato calcolato che nel 1994 fosse di circa 85 chili all’anno, pari a 235 grammi al giorno. la tabella seguente documenta quanto è avvenuto nelle principali aree del mondo negli ultimi 40 anni. La tabella successiva mette a confronto i dati del consumo mondiale di carne e di latte nel 1997 con gli incrementi previsti dalla Fao nel 2020. gli aumenti maggiori si verificano negli allevamenti intensivi dei paesi ricchi.

Aumento del consumo di carne pro capite negli ultimi 40 anni
(in kg. Annui)

Stati Uniti                                    89                             124
Europa                                        56                               89
Cina                                              4                               54
Giappone                                      8                               42
Brasile                                         28                              79


Consumo mondiale di carne e latte
(in milioni di tonnellate)

Anno                             1997                        2020             incremento
Carne                             209                          327                + 56%
Latte                               422                          648                + 54%


La FAO prevede che tra il 2001 e il 2050 la produzione di carne e latte raddoppieranno, passando rispettivamente da 229 a 465 milioni di tonnellate e da 580 a 1053 milioni di tonnellate.

La conversione delle proteine vegetali in proteine animali avviene con una scarsissima efficienza. Per produrre 1 kg di proteine di carne di manzo occorrono mediamente 16 kg di proteine vegetali. Di conseguenza per ottenere 1 kg di proteine di carne vaccina occorre coltivare una superficie agricola 16 volte maggiore di quella necessaria a ottenere i kg di proteine vegetali. Il grafico seguente mette a confronto le quantità di proteine vegetali e le quantità di proteine animali che si possono ricavare da un ettaro di terreno agricolo. Il rapporto tra la soia e la carne di manzo è di 20 a 1.


Secondo calcoli effettuati dal WWF svizzero queste sono le superfici di terreno necessarie per produrre 1 kg di:

manzo, incluso il mangime                                                   324 mq
manzo da pascolo                                                                  269 mq
pesce                                                                                      207 mq
maiale                                                                                       55 mq
polli da allevamento                                                                 53 mq
uova                                                                                          44 mq
riso                                                                                            17 mq
pasta                                                                                          17 mq
pane                                                                                           16 mq
verdure e patate                                                                           6 mq

Usando lo stesso tempo e la stessa sup3erficie necessari a produrre 1 kg di carne, si possono produrre 200 kg di pomodori o 160 kg di patate.
L’aumento dei consumi di carne e la scarsa efficienza di conversione delle proteine vegetali in proteine animali richiede che quantità crescenti di terreni agricoli siano destinate all’allevamento e del bestiame e alla sua alimentazione. Attualmente l’allevamento del bestiame occupa il 30% delle terre emerse non ricoperte da ghiacci e più di un terzo delle terre coltivabili viene utilizzato per produrre cereali per l’alimentazione degli animali. Negli Stati Uniti, oltre l’80% del mais e il 95% dell’avena sono coltivati a questo scopo. In tutto il mondo gli animali d’allevamento consumano una quantità di cibo equivalente alle calorie necessarie per sfamare da 9 a 11 miliardi di persone, quasi il doppio dell’intera popolazione terrestre, mentre, come si è detto, il 20% soffre a causa della denutrizione e 100 milioni all’anno muoiono letteralmente di fame. Secondo i dati della Banca mondiale, nel 2003 le mucche europee hanno ricevuto ogni giorno 5 dollari di sovvenzioni pubbliche, più del doppio del reddito monetario quotidiano di 3 miliardi di persone nel sud del mondo.
Negli ultimi cinquant’anni è stata distrutta la metà delle foreste tropicali esistenti, soprattutto per fare spazio a pascoli e a coltivazioni per l’alimentazione animale. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso il tasso di deforestazione è raddoppiato. Ogni minuto di ogni giorno viene distrutta nel mondo un’area di foresta tropicale grande quanto otto campi di calcio. Riducendo i propri consumi di proteine animali, si contribuisce pertanto anche a ridurre l’abbattimento delle foreste, ben più efficacemente di quanto non si riesca a fare con appelli moralistici, raccolte di fondi e altre misure di compensazione.
Oltre ad assorbire un terzo della produzione agricola, a occupare direttamente il 30% delle terre coltivabili e a distruggere sistematicamente i boschi, l’allevamento degli animali sta anche saccheggiando il patrimonio ittico, contribuendo in misura determinante alla rarefazione di molte specie di pesci. Circa il 50% del pescato viene trasformato in farine destinate all’alimentazione di bovini, suini, ovini, pollame ecc. per nutrire un salmone d’allevamento servono circa 50 pesci. Gli allevamenti zootecnici e l’industria ittica hanno trasformato le mucche domestiche nei più grandi predatori marini del pianeta. Il miliardo e mezzo di bovini allevati industrialmente consumano più pesce di tutti gli squali, delfini e foche del mondo messi insieme. I gatti domestici consumano più pesce, specialmente tonno, di tutte le foche del mondo.
Altrettanto distruttivo è l’impatto della crescita dei consumi di pesce sugli ecosistemi marini. L’adozione di metodi industriali di pesca (pescherecci sempre più potenti con sistemi di surgelazione a bordo, sonar molto sofisticati, reti a strascico lunghe decine di chilometri a maglie molto piccole che arano i fondali marini spazzando via ogni forma di vita animale e vegetale) è riuscita in una impresa fino a pochi anni fa ritenuta impensabile: spopolare gli oceani. <<Le nazioni Unite riportano che tutte le 17 aree mondiali più sfruttate per la pesca hanno raggiunto o superato i loro limiti naturali. Oggi ci sono circa tredici milioni di pescatori nel mondo. Dodici milioni usano metodi tradizionali catturando circa la metà del pescato mondiale. Il restante milione utilizza 37.000 pescherecci industriali ed è responsabile dell’altra metà delle catture. Le innovazioni industriali permettono ai pescatori di assicurarsi dall’oceano dall’80% al 90% di una data popolazione ittica in qualsiasi periodo dell’anno. Il rapido spopolamento degli oceani mostra ormai pienamente i suoi effetti. Tra il 1970 e il 1990 la flotta da pesca industriale mondiale è aumentata del doppio rispetto al tasso di pesca totale: sempre più barche che pescano sempre meno pesce. Ci si potrebbe chiedere se l’acquacoltura o l’allevamento ittico riducano l’impatto sugli oceani causato dai metodi dai metodi distruttivi della pesca industriale. In realtà accade l’opposto. L’acquacoltura viene condotta solitamente nelle aree costiere, dopo aver abbattuto le foreste di mangrovia, che per molti pesci costituiscono l’ambiente primario per la deposizione delle uova. Fino ad oggi sono state abbattute, prosciugate, arginate o interrate circa metà delle foreste di mangrovia del mondo. L’acquacoltura richiede inoltre grandi quantità di acqua pulita, di cibo, e un uso massiccio di antibiotici>>.
Occorre ora prendere in considerazione i consumi energetici degli allevamenti industriali. Secondo i dati riportati da Jeremy Rifkin, negli Stati Uniti per produrre 1 kg di carne da bovini allevati con cereali coltivati industrialmente (fertilizzanti chimici, antiparassitari, macchine agricole e irrigazione) occorrono circa 8 litri di benzina. Pertanto, in base al consumo medio pro-capite, una famiglia media di quattro persone, mangiando 340 kg di carne all’anno, consuma quasi 3.000 litri di benzina. Quanta ne occorre per percorrere 45.000 chilometri in automobile con un consumo medio di circa 15 chilometri al litro. Grosso modo il consumo annuo di quattro automobili. Poiché la combustione di un kg di petrolio sviluppa circa 3 kg di CO2, le emissione di CO2, generate per rispondere al consumo di carne di una famiglia italiana ammontano a quasi 9 tonnellate annue. Un vegetariano che guida un SUV è più ambientalista di un carnivoro in bicicletta.
Ma non è tutto. A queste emissioni occorre aggiungere il metano (23 volte più opaco della CO2 alla radiazione infrarossa) generato dalle fermentazioni intestinali dei ruminanti, e il protossido d’azoto (296 volte più opaco) sviluppato dal letame. Dalle fermentazioni enteriche dei bovini deriva il 19% delle emissioni globali di metano (il 35% di quello generato dalle attività umane) per un totale di 115 milioni di tonnellate all’anno di 600 milioni. Una quantità superiore a quella generata dalla produzione di energia, che è di 110 milioni di tonnellate. Dal letame degli allevamenti deriva il 65% delle emissioni globali di protossido d’azoto.
Secondo uno studio effettuato da Gidon Eshel del Bard Collegege e da Pamela A.Martin dell’Università di Chicago, riportato in un articolo pubblicato sul New York Times del 27 gennaio 2008, una mucca da latte produce 75 kg di metano ogni anno, l’equivalente di 1.500 kg di CO2. questa è la ragione per cui negli ultimi 250 anni le emissioni di metano sono aumentate del 150%, cinque volte di più della concentrazione di CO2, che è stata del 33%. Nello stesso articolo si legge che ricavare un apporto calorico di 320 calorie da vegetali coltivati chimicamente (115 grammi di cavolfiore, una tazza di broccoli, una melanzana e 225 grammi di riso) occorre l’equivalente di 0,04 litri di benzina. Per ricavarne altrettante dalla carne di manzo occorre una bistecca di 170 grammi, che richiede un consumo energetico equivalente a 0,60 litri di benzina: 16 volte di più. Aggiungendo alle emissioni di CO2 quelle di metano, in termini di produzione complessiva di gas serra il divario è ancora maggiore: la bistecca ne genera una quantità 24 volte superiore alle verdure e al riso: 4,5 kg a fronte di 0,18.
Secondo la citata ricerca della FAO, l’allevamento di bestiame produce complessivamente un quinto delle emissioni di gas serra, più di quelle prodotte dai trasporti nel loro complesso. Inoltre dalle urine degli animali,d’allevamento proviene il 64% dell’ammoniaca riversata nell’ambiente, che contribuisce ad aumentare le pogge acide.
Non bisogna infine dimenticare che sull’incremento della temperatura terrestre incide anche la minore capacitàdi assorbimento della CO2 attraverso la fotosintesi clorofilliana, derivante dagli abbattimenti delle foreste per fare posto ai pascoli.
Oltre ai consumi energetici che comporta e alle emissioni di gas climalteranti che genera, l’allevamento industriale del bestiame consuma enormi quantità di acqua. Per calcolarle occorre sommare l’acqua che si utilizza per irrigare le colture agricole destinate all’alimentazione animale, quella che serve per abbeverare gli animali e quella necessaria per pulire le stalle.. una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, un bovino e un cavallo 50, un maiale 20 e una pecora 10. Nella tabella seguente vengono riportati i metri cubi di acqua (1 metro cubo corrisponde a 1.000 litri) necessari per ottenere 1 kk dei seguenti alimenti:

1 Kg                                                                     m3 acqua

Manzo alimentato con cereali                               15
Pecora                                                                    10
Pollame                                                                    6
Formaggio                                                              20
Latte                                                                         2
Cereali                                                                      0,4 / 3
Frutta                                                                         1


Una famiglia americana di quattro persone consuma in un anno tanta acqua quanta ne occorre per produrre i 5 kg di carne bovina che mangia mediamente in una settimana.
Non bisogna dimenticare, infine, l’inquinamento chimico generato dai fertilizzanti, pesticidi, ed erbicidi utilizzati per le monoculture intensive. L’uso di queste sostanze, che comportano anche forti consumi di fonti fossili quando vengono prodotte contribuendo ad aggravare l’effetto serra, è dovuto soprattutto alla pratica della monocoltura, che impoverisce la fertilità dei suoli e indebolisce l’autodifesa delle piante dagli attacchi dei parassiti, ma consente di meccanizzare i processi di produzione, cioè di accrescere la produttività riducendo al contempo il numero degli occupati in agricoltura. Fino all’80% di questi prodotti chimici sono utilizzati nelle colture di mais e soia destinati all’alimentazione animale.
Sulla base di queste considerazioni la scelta di un regime alimentare basato sul consumo di proteine vegetali diventa un elemento determinante nel paradigma culturale della decrescita. Senza una drastica riduzione dei consumi di proteine animali l’obiettivo della decrescita non può essere realisticamente perseguito, né come scelta individuale, né come prospettiva politico-culturale. Se per produrre la carne consumata in un anno da una famiglia di quattro persone occorre la stessa quantità di energia fossile consumata annualmente da quattro automobili, ha senso proporsi di disincentivare l’uso dell’automobile per diminuire le emissioni di CO2 senza perseguire anche la decrescita dei consumi di proteine animali? Ha senso incentivare l’uso dei mezzi pubblici e non incentivare il consumo di proteine vegetali? Co,e si può pensare di estendere le superfici boscate per potenziare l’assorbimento della CO2 mediante la fotosintesi clorofilliana senza una diminuzione della domanda di hamburger e bistecche? È ragionevole proporsi l’obiettivo di ridurre i consumi di acqua applicando i riduttori di flusso ai rubinetti se non si riducono i consumi alimentari di carne e formaggio? Le briciole che cadono dalle tavole dei popoli ricchi e gli slanci di generosità di alcune fondazioni umanitarie riusciranno a sfamare il miliardo di esseri umani, per lo più bambini, che soffrono di denutrizione cronica se due terzi dei terreni agricoli del mondo continueranno a essere sottratti all’alimentazione umana per essere dedicati ad allevare e nutrire gli animali di cui si nutre il miliardo di persone appartenenti ai popoli ricchi e gli aderenti alle fondazioni umanitarie?
Se non si può concepire l’obiettivo politico e culturale della decrescita senza proporsi la sostituzione delle proteine animali con proteine vegetali nell’alimentazione umana, una dieta vegetariana può invece essere effettuata con motivazioni che prescindono dalla crescita, e in effetti viene per lo più effettuata ragioni salutistiche e/o etiche nei confronti degli animali. Tuttavia se non viene inserita nel contesto culturale e politico della decrescita, anche i limiti di questa scelta sono evidenti. Come si può motivare con argomentazioni salutistiche rimanendo indifferenti alle molteplici forme di inquinamento ambientale e alle loro conseguenze sulla salute umana causate da un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci? Come è possibile sostenerla con motivazioni di carattere etico nei confronti degli animali rimanendo indifferenti nei confronti di tecnologie finalizzate alla crescita della produttività agricola, che distruggono il loro habitat e causano l’estinzione di intere specie viventi con un’accelerazione crescente in proporzione alla crescita della potenza tecnologica raggiunta? Che senso ha scegliere una dieta a base di proteine vegetali per ridurre, attraverso la diminuzione della domanda di carne, il numero degli animali sottoposti a indicibili sofferenze negli allevamenti lager, non facendo nulla per contrastare l’uso dei pesticidi che, per accrescere i rendimenti agricoli, generano sofferenze altrettanto gravi in altre specie viventi?
Se, dunque, il paradigma culturale della decrescita presuppone, concettualmente e praticamente, la progressiva sostituzione delle proteine animali con proteine vegetali nell’alimentazione umana, la valenza etica e salutista di una scelta alimentare vegetariana può realizzarsi pienamente soltanto all’interno del paradigma culturale della decrescita. La matrice etica e filosofica comune a questi due approcci è una concezione non antropocentrica del mondo, ovvero la consapevolezza che io bene della specie umana non può essere perseguito se comporta il male di altre specie viventi e che il bene di tutte le specie viventi si riverbera anche sul bene della specie umana. Se non si riduce la violenza esercitata dalla specie umana nei confronti delle altre specie viventi non si riduce nemmeno la sofferenza che in conseguenza di quella violenza si ripercuote anche sulla specie umana, in termini di mancanza di cibo per il venti per cento, in termini di peggioramento della salute per un altro venti per cento, in termini di precarietà per tutti gli altri, in termini di aggravamento delle tensioni internazionali per il controllo delle fonti energetiche fossili e dell’acqua, in termini di accentuazione delle varie forme di inquinamento ambientale, in termini di irreversibili mutamenti climatici. Una somma di fenomeni che si rafforzano reciprocamente e che secondo un numero sempre maggiore di scienziati stanno ormai minacciando la stessa sopravvivenza della nostra specie.

Tratto dal libro “La decrescita felice” di Maurizio Pallante – edizioni per la decrescita felice